giovedì 8 maggio 2014

Il dono della memoria

Un ricordo impossibile

Da una lunga scala di legno che portava a una terrazza assolata – quelle terrazze bianche e piatte che facevano da tetto alle vecchie case del meridione, usate dalle donne per far asciugare al vento il bucato steso su lunghi fili - ebbene, da quella vecchia scala dai gradini consumati scendeva una donna che teneva in braccio la sua figlioletta, mentre con l’altro braccio cingeva una bacinella vuota.

Dal basso del pianerottolo sottostante alzai lo sguardo e la osservai attentamente: era molto bella nel suo semplice abito scuro con grandi tasche nelle quali aveva l’abitudine di infilare ogni piccola cosa trovata per casa mentre riordinava, con l’intenzione di riporla al suo posto in un secondo momento, quando avesse avuto un po’ di tempo.

Ma quelle tasche non si svuotavano mai e quella strana abitudine le rendeva magiche agli occhi dei bambini, quando, all’occorrenza, oplà, facevano apparire un elastico, una spilla da balia, un fermaglio per capelli, un fazzoletto, una monetina, una caramella.


I lunghi capelli di un nero corvino erano stati intrecciati e raccolti alla base della nuca da mani sapienti, capaci ormai di pettinarli senza bisogno di alcuno specchio e il viso splendeva per la luce emanata da quegli occhi verdi punzecchiati da pagliuzze dorate e per il colore della sua pelle che ricordava molto le antiche porcellane in miniatura che lei conservava gelosamente: piatti, zuppiere e servizi da tè e caffè di cui ogni bambola sarebbe andata fiera e con cui ogni bambina avrebbe desiderato giocare.

Alta, magra, nonostante il pancione che sporgeva, sul quale erano dolcemente appoggiate sia la sua bimba che la bacinella, e che dichiarava apertamente che tra breve la famiglia sarebbe cresciuta e la piccola fra le sue braccia avrebbe avuto un fratellino o una sorellina.

- E’ andata a stendere – pensai.

Già da tempo, non vista, la seguivo ovunque andasse e avevo imparato a conoscere e amare quella donna.
L’appartamento in cui abitava si trovava su quel pianerottolo e si componeva di due stanze che si aprivano a destra e a sinistra di un piccolo e oscuro atrio. Una camera da letto, inondata dal sole di una finestra che portava su uno stretto balcone con le inferriate dipinte di bianco, stracolmo di vasi fioriti e di erbe aromatiche, la cui cura era una vera passione. Pochi i mobili in legno ma di pregio: un letto a due piazze alto e pesante, due comodini sormontati da un marmo, che custodivano al loro interno il vaso da notte in ceramica, un armadio con cassettiera a un’anta, rivestita interamente di specchio, in stile liberty primo novecento e una pettineuse con alzata a tre specchi che si potevano chiudere, sovrapponendosi, su quello centrale. Il pezzo più interessante era però una stampa antica, incorniciata e appesa alla parete, che raffigurafa Dio Padre e la Santissima Trinità. La cucina era più povera, un grande mastello in alluminio colmo di lenzuola che candeggiavano sotto la cenere,  campeggiava vicino alla finestra e nell’aria c’era odore di pulito.

Le cose, purtroppo, non vanno sempre come ci si aspetta, e così, quella mattina, bastò un piede messo in fallo fra un gradino e l’altro e vidi la donna perdere l’equilibrio e rotolare rovinosamente lungo la scala fino quasi al pianerottolo, la bacinella volare non si sa dove.

Sentii l’urlo atterrito della donna che, cadendo, si era resa conto di non riuscire più a proteggere né la piccola, che le scivolò dalle braccia e atterrò sola e impaurita ma salva, sul pianerottolo, né la creatura che portava in grembo che invece ebbe la peggio poiché i colpi furono talmente forti che il suo cuoricino cessò di battere e lei smise di vivere prima ancora di essere nata.

Ho sempre avuto questo ricordo. L’ho portato con me per tantissimo tempo. Quando stavo per addormentarmi, in una sala d’aspetto, sotto i raggi di una lampada UV…ogni tanto emergeva dal profondo del mio essere, si presentava come una visione a colori e poi, così come era venuto, senza preavviso, si dissolveva, per ripresentarsi poi, prepotentemente in un altro momento, in un’altra situazione.

Ho vissuto la mia infanzia lontana dalla mia famiglia, con la nonna materna e la zia, e nella mia memoria le figure di mia madre e di sua sorella spesso tendevano a sovrapporsi. Mi domandavo perciò chi fosse quella sventurata donna.
Avevo circa trent’anni quando lo chiesi alle due sorelle riunite per un’occasione. Stavo seguendo un percorso di psicoterapia e volevo solo mettere un po’ d’ordine fra i miei ricordi. Più andavo avanti nella mia descrizione e più vedevo sbiancare il volto di mia madre che muoveva il capo in cenno di diniego. La zia taceva.
Tu non puoi avere questo ricordo. – disse alla fine mia madre – Tutto quello che racconti è realmente accaduto ma quando io avevo solo nove anni! La donna, incinta di nove mesi, che cadde dalle scale e perse una bimba in quell’incidente era tua nonna e la piccola che le stava in braccio era la zia, che aveva solo due anni.
Tu non esistevi! Non puoi ricordare!

Sono nata molti anni dopo quel fatto, è indubbio, eppure un filo sottile mi ha tenuto legata alla mia nonna che mi ha cresciuta fino ai sei anni e ha scelto il mio nome. Mi chiamo Rita, la Santa delle cose impossibili, a cui lei era molto devota e alla quale, un giorno, aveva fatto un voto.
Non esistevo. Non posso avere quel ricordo.
A meno che…


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