Un ricordo impossibile
Da una lunga scala di legno che
portava a una terrazza assolata – quelle terrazze bianche e piatte che facevano da
tetto alle vecchie case del meridione, usate dalle donne per far asciugare al
vento il bucato steso su lunghi fili - ebbene, da quella vecchia scala dai
gradini consumati scendeva una donna che teneva in braccio la sua figlioletta,
mentre con l’altro braccio cingeva una bacinella vuota.
Dal basso del pianerottolo
sottostante alzai lo sguardo e la osservai attentamente: era molto bella nel
suo semplice abito scuro con grandi tasche nelle quali aveva l’abitudine di
infilare ogni piccola cosa trovata per casa mentre riordinava, con l’intenzione
di riporla al suo posto in un secondo momento, quando avesse avuto un po’ di
tempo.
Ma quelle tasche non si
svuotavano mai e quella strana abitudine le rendeva magiche agli occhi dei
bambini, quando, all’occorrenza, oplà, facevano apparire un elastico, una
spilla da balia, un fermaglio per capelli, un fazzoletto, una monetina, una
caramella.
I lunghi capelli di un nero
corvino erano stati intrecciati e raccolti alla base della nuca da mani
sapienti, capaci ormai di pettinarli senza bisogno di alcuno specchio e il viso
splendeva per la luce emanata da quegli occhi verdi punzecchiati da pagliuzze
dorate e per il colore della sua pelle che ricordava molto le antiche
porcellane in miniatura che lei conservava gelosamente: piatti, zuppiere e
servizi da tè e caffè di cui ogni bambola sarebbe andata fiera e con cui ogni bambina
avrebbe desiderato giocare.
Alta, magra, nonostante il
pancione che sporgeva, sul quale erano dolcemente appoggiate sia la sua bimba che
la bacinella, e che dichiarava apertamente che tra breve la famiglia sarebbe
cresciuta e la piccola fra le sue braccia avrebbe avuto un fratellino o una
sorellina.
- E’ andata a stendere – pensai.
Già da tempo, non vista, la
seguivo ovunque andasse e avevo imparato a conoscere e amare quella donna.
L’appartamento in cui abitava si
trovava su quel pianerottolo e si componeva di due stanze che si aprivano a
destra e a sinistra di un piccolo e oscuro atrio. Una camera da letto, inondata
dal sole di una finestra che portava su uno stretto balcone con le inferriate
dipinte di bianco, stracolmo di vasi fioriti e di erbe aromatiche, la cui cura
era una vera passione. Pochi i mobili in legno ma di pregio: un letto a due
piazze alto e pesante, due comodini sormontati da un marmo, che custodivano al
loro interno il vaso da notte in ceramica, un armadio con cassettiera a un’anta,
rivestita interamente di specchio, in stile liberty primo novecento e una pettineuse con alzata a tre specchi che
si potevano chiudere, sovrapponendosi, su quello centrale. Il pezzo più
interessante era però una stampa antica, incorniciata e appesa alla parete, che
raffigurafa Dio Padre e la Santissima Trinità. La cucina era più povera, un
grande mastello in alluminio colmo di lenzuola che candeggiavano sotto la
cenere, campeggiava vicino alla finestra
e nell’aria c’era odore di pulito.
Le cose, purtroppo, non vanno
sempre come ci si aspetta, e così, quella mattina, bastò un piede messo in
fallo fra un gradino e l’altro e vidi la donna perdere l’equilibrio e rotolare
rovinosamente lungo la scala fino quasi al pianerottolo, la bacinella volare
non si sa dove.
Sentii l’urlo atterrito della
donna che, cadendo, si era resa conto di non riuscire più a proteggere né la
piccola, che le scivolò dalle braccia e atterrò sola e impaurita ma salva, sul
pianerottolo, né la creatura che portava in grembo che invece ebbe la peggio
poiché i colpi furono talmente forti che il suo cuoricino cessò di battere e
lei smise di vivere prima ancora di essere nata.
Ho sempre avuto questo ricordo. L’ho portato con me per
tantissimo tempo. Quando stavo per addormentarmi, in una sala d’aspetto, sotto
i raggi di una lampada UV…ogni tanto emergeva dal profondo del mio essere, si
presentava come una visione a colori e poi, così come era venuto, senza
preavviso, si dissolveva, per ripresentarsi poi, prepotentemente in un altro
momento, in un’altra situazione.
Ho vissuto la mia infanzia
lontana dalla mia famiglia, con la nonna materna e la zia, e nella mia memoria le
figure di mia madre e di sua sorella spesso tendevano a sovrapporsi. Mi
domandavo perciò chi fosse quella sventurata donna.
Avevo circa trent’anni quando lo
chiesi alle due sorelle riunite per un’occasione. Stavo seguendo un percorso di
psicoterapia e volevo solo mettere un po’ d’ordine fra i miei ricordi. Più
andavo avanti nella mia descrizione e più vedevo sbiancare il volto di mia
madre che muoveva il capo in cenno di diniego. La zia taceva.
Tu non puoi avere questo ricordo.
– disse alla fine mia madre – Tutto quello che racconti è realmente accaduto ma quando
io avevo solo nove anni! La donna, incinta di nove mesi, che cadde dalle scale e perse una bimba in quell’incidente
era tua nonna e la piccola che le stava in braccio era la zia, che aveva solo
due anni.
Tu non esistevi! Non puoi
ricordare!
Sono nata molti anni dopo quel
fatto, è indubbio, eppure un filo sottile mi ha tenuto legata alla mia nonna
che mi ha cresciuta fino ai sei anni e ha scelto il mio nome. Mi chiamo Rita,
la Santa delle cose impossibili, a cui lei era molto devota e alla quale, un
giorno, aveva fatto un voto.
Non esistevo. Non posso avere
quel ricordo.
A meno che…
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